domenica 30 ottobre 2016

il valore dei valori

Uno dei nostri migliori ex studenti ha appena pubblicato un libro ben scritto, ampio e ben documentato su una serie di autori, italiani e francesi, da gran tempo misconosciuti e trascurati, che hanno animato il dibattito pedagogico tra l'Unità d'Italia e la Prima guerra mondiale, nel tentativo (non riuscito) di salvaguardare la centralità delle matrici cristiane e cattoliche in ambito educativo e culturale di fronte all'insorgere prepotente delle istanze scientifiche e razionalistiche, concomitanti e affini all'avvento del dominio industriale, capitalistico e borghese.
Un libro che, nonostante il titolo apparentemente circoscritto e datato, presenta quindi una forte attualità, in una fase come questa in cui il richiamo ai valori si fa pressante nel tentativo di venir fuori dalla profonda crisi etica e politica in cui ci troviamo immersi.
Crisi delle culture laiche, al pari di quelle religiose, ormai entrambe divorate dai tempi e dai modi della postmodernità postdemocratica e postliberale ( e forse anche già post-umana).

Resto colpito da varie assonanze che riscontro oggi in me, certamente retaggio della mia formazione cristiana, e soprattutto materno-milaniana.
Se non avessi lasciato la Chiesa a vent'anni, forse mi sarei trovato a scrivere o a pensare un libro così e a cercare di valorizzare l'opera di autori come questi, spesso dimenticati e superati da quella che i vincitori chiamano 'storia'.

'Senza un alcun che di esplosivo la palla del fucile non erompe, così negli insegnamenti della verità e delle regole dell'onestà, la mente de' giovani, senza impulso d'affetto, non esce all'atto efficace dell'apprendervi, anzi ripugna da sì fredda pedanteria che, insegnando il vero e il vivere onesto, pare non glien'importi nulla.'
Uno dei maggiori difetti che Conti lamentava nella scuola, era la riduzione della sua missione al veicolo di circoscritte nozioni e competenze disciplinari. 'Ma l'istruzione non basta -osservava- ci vuole l'educazione ancora; ossia, l'istruzione dev'essere educativa'...
Di qui, la chiosa della celebre frase di Victor Hugo...'Ogni scuola che s'apre, è un carcere che si chiude'. Ma perchè dunque, moltiplicandosi le scuole, si moltiplicano delitti e prigioni...? La risposta viene da sé: non basta una scuola, conviene che la scuola sia buona.

Guibert definì il carattere come l ' interna costituzione morale dell'uomo' e dunque la forza con la quale la persona diveniva capace di determinare le proprie azioni. Riprendendo una citazione di Lacordaire sosteneva che il carattere fosse 'l'energia sorda e costante della volontà, un non so che di irremovibile nelle decisioni, e più ancora nella fedeltà a se stesso, alle proprie condizioni, alle proprie amicizie, alle proprie virtù, una forza intima che esce dalla persona ed ispira a tutti quella fiducia che chiamano sicurezza'.
Si tratta di una capacità che supera la mera intelligenza. Infatti, se 'l'ingegno può molto, il carattere può assai di più, perchè nel medesimo tempo che sa guadagnare gli uomini, sa anche dominare le circostanze'. Il carattere rappresentava così la vera 'misura della vita', in quanto 'strumento' che principalmente 'la forma'.

Gillet era convinto che 'l'assenza totale o parziale di educazione morale' dipendesse dalla confusione riguardo il significato del cammino formativo.
Crollate le certezze su quel dovesse essere l'orizzonte perfettivo da perseguire, secondo Gillet regnava ormai il più totale scetticismo su cosa fosse il bene o il male per la persona. Su queste tematiche aleggiava una preoccupante 'epidemia di dubbio', che giocava a favore di un sempre più diffuso lassismo della ragione...Al riguardo Gillet citò un'inchiesta relativa agli orientamenti ideologici dei professori di filosofia dei licei francesi..i cui risultati...attestavano una totale 'anarchia' rispetto alle convinzioni valoriali di fondo.
Questo smarrimento...scaturiva dal fallimento delle filosofie moderne che, dopo aver screditato l'etica metafisica classica, non erano riuscite a sostituirla con una valida alternativa, lasciando in eredità soltanto una soffocante aria scettica...

Nella formazione intellettuale coeva, Gillet lamentava un 'difetto di metodo' riguardante l'eccessiva attenzione prestata alla memoria, e dunque alla ripetizione di concetti e norme, a discapito di in vero 'sforzo personale' di giudizio, necessario per 'l'assimilazione intellettuale'. Si cadeva così in una 'educazione alla rovescia' impartita circoscrivendo 'l'iniziativa personale e lo sforzo volontario a profitto della 'passività' sensibile'.
Secondo Gillet, invece, l'educazione doveva soprattutto aiutare a capire, anche confrontandosi, per esempio, con le teorie che sembravano allontanare i giovani da una vita morale sana. Tenere gli studenti all'oscuro degli 'errori' del mondo, sperando di evitarne l'influenza, gli appariva non solo debilitante, , ma anche di 'una ingenuità o d'una temerarietà inqualificabile'. Presto, infatti, gli stessi giovani sarebbero stati immersi nel mondo subendo l'inevitabile influenza di queste visioni: era dunque necessario prepararli adeguatamente, dotandoli dei necessari anticorpi.



(da Andrea Marrone, La pedagogia cattolica nel secondo Ottocento, Studium, 2016)

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