sabato 23 gennaio 2016

le discese ardite e le risalite


Siamo partiti all'alba con Ceciliu. Mentre iniziamo a dirigerci verso il Pico Grande, lui si dichiara figlio del vulcano e spiega, indicandola col dito e sbattendo i piedi, che la parola Chã vuol dire Terra. E' nato qui nella caldeira e non se n'è mai voluto andare, se non per poco, neppure dopo le due eruzioni avvenute durante la sua vita (1995 e 2014). La sua cooperativa vinicola è chiusa, il vino è rimasto sepolto sotto la lava ma altri continuano a produrlo nelle vigne superstiti o in quelle che sono state ripiantate. Man mano che saliamo ci mostra fiero i meleti, i fichi, i fagioli, i melograni e ci ha fatto odorare cidrella, lavanda vulcanica e una piccola pianta da cui si ricava il vermuth. Il sole resta coperto quasi sino all'ultimo, ma l'ascesa è stata comunque molto dura e lunga per noi, 1.100 metri di dislivello in 3 ore e mezza. In vari momenti ci siamo affidati più alle braccia che alle gambe e Ceciliu rallentava dicendo “todo bien?” e ci aspettava. Ma alla fine stringendo i denti siamo arrivati all'immenso cratere centrale a 2860 metri ed abbiamo potuto ammirare dall'alto i fiumi di lava che hanno avvolto i villaggi, Enrico ha subito aperto il suo pacchetto di patatine rustiche per riprendere sali ed ha offerto qualche taralluccio (rubato all'aeroporto di Elmas) all'imperturbabile Ceciliu le cui energie sembravano ancora quelle di inizio giornata. Ma ci aveva riservato una sorpresa per il ritorno: siamo discesi dal vulcano sciando e saltellando come bambini su un piano inclinatissimo e immergendo i nostri piedi nella lava soffice e leggera per un kilometro almeno. Alla fine Enrico aveva entrambe le scarpe aperte da vero pagliaccio, mentre Viviana si era trasformato in uno slittino umano. Non è roba da tutti i giorni ed è stato uno dei momenti più divertenti ed inaspettati di questo viaggio. Giunti alle pendici del vulcano ci siamo seduti e abbiamo svuotato le scarpe, le calze, i risvolti dei calzoni che avevano raccolto tantissimi frammenti e pietroline che pesavano sul nostro cammino almeno quanto le pietre che avevano nel frattempo già raccolto negli zaini come ricordo di questi luoghi così neri e lucenti.

Non ci sono strade dirette che da Chã des Caldeiras portano in auto a Mosteiros, ma pur di raggiungerla paghiamo un po' salato un aluguer solo per noi, rosso fiammante; lo guida un giovane ragazzo che alterna velocità folli quando corre sui sampietrini e sugli sterrati e invece, rallenta inopinatamente prudente nei rari tratti di asfalto che forse trova infidi e sdrucciolevoli. In alcuni momenti Viviana non può fare a meno di schizzare sul sedile e chiedere di andare più piano, soprattutto quando incrociamo altre vetture nel senso opposto in una strada sempre stretta e senza protezioni, mentre sotto si succedono abissi di mare e lava. I nostri scheletri arrivano piuttosto tesi alla accogliente Pensao Christine che ci appare come un miraggio.

Mosteiros è apparentemente un villaggio fantasma, poco illuminato e con pochissima gente per strada. Ci affidiamo ad una signora al distributore della Shell per capire dove andare a cenare e, come sempre accade anche nei luoghi più sperduti, riusciamo anche stavolta a mangiare le nostre patelle in guazzetto, pesce serra grelhada e bife de atum. Enrico vaneggia per la stanchezza e ci dirigiamo a letto barcollanti, anche a causa delle locali birrette tracannate. Sentiamo che Mosteiros può essere il luogo giusto per concludere questo viaggio in tranquillità. La luna è piena e il mare mugghiante si fa sentire della nostra finestra con forza e senza fine.

Ora che scriviamo, anche la giornata di oggi è trascorsa nel dolce far nulla; Enri si è dovuto ricomprare delle scarpe nuove dai cinesi e si è cimentato in un ardito confronto in chiesa con un Gesù baffuto.

Ma il momento centrale è stato alle 15.30 quando la dolce cameriera di Christine ci ha annunciato sorridente che era finalmente pronta la cachupa fresca, il più importante piatto della cucina capoverdiana, da noi lungamente atteso e non ancora assaporato. Non si può dire che sia un piatto leggero ma è veramente gustoso: una sorta di stufato di carne frollata di capretto, fagioli e mais. La serata si è conclusa con una lunga passeggiata sul lungomare (le onde erano sempre più lunghe e scroscianti nella risacca) e un'ottima vellutata di zucca, carote e patate.




Domani questa pace finirà e ci ritroveremo come star ad attraversare 4 o 5 aeroporti in 24 ore per tornare a casa. Ci volete ancora? 





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