venerdì 2 ottobre 2015

con gli occhi del ciclone

Ieri pomeriggio è scattato l'allarme rosso, l'allerta generale.
Ci hanno sgomberato dalla facoltà, non ho neppure potuto fare il solito ricevimento studenti.
Alle 15, tassativamente, dovevamo uscire.
Non si trattava di un'esercitazione, o di una simulazione.
L'hanno chiamato ciclone, stavolta.
Lo stiamo vivendo veramente.
File di auto per le strade, tutte che tornano a proteggersi dentro casa.
Come sfollati, agiati e sicuri dentro i loro gusci, ma con un senso di angoscia.
Io sfreccio in bici, a Terrapieno, sulla strada e tra i buchi nei quali sono caduto più di un anno fa.

Diluvio notturno, fulmini come punizioni divine dal cielo, tuoni come rombi di guerra.
Stracci sotto le portefinestra, occhi al soffitto del bagno, orecchie che non prendono sonno.
Penso a chi sta per strada, che ha trovato rifugio nei cespugli, sotto i portici delle banche.
Penso ai poveri, a chi non ha casa, a chi si bagna insieme ai cani.
Penso a me, a questa ennesima notte solitaria, al buio fuori, al suono del vento e del mare in tempesta.
Il sentimento del sublime non mi assiste.

Mi sveglio -e mi alzo- tardi.
Fuori piove ancora, non posso neppure andare al giardinetto o a fare la spesa, non ha senso agitarsi.
Cagliari è stata colpita, ma non troppo.
Ovviamente, Capoterra e Olbia sono di nuovo a galleggiare nell'acqua.
Ovviamente, poco o niente è stato fatto dalle alluvioni del recente passato.
Piccole, sopportabili catastrofi quotidiane, in fondo.
Tutto passa, siamo in buone mani.
Appare in tv la faccia del capo della Protezione civile sarda: sarà anche bravo, ma si chiama Nudda.
Siamo in emergenza, dice, ma ha uno sguardo lento, un parlare calmo, rassicurante.
Come sotto anestesia: ci stiamo adattando anche a questo, ci stiamo abituando a vivere così.
Non ci si lamenta neppure quasi più. Non si chiede neppure più niente.

Si vive solo in attesa che passi, in attesa che si dimentichi, in attesa che torni...

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