mercoledì 6 maggio 2015

tra igea e pan

 Notti in cui mi sveglio sudato, stanco come se non dormissi.
Notti placide, ingenue, come quelle di un bambino che non sa ancora di soffrire.
Mattine in cui non riesco a centrare il water, per quanto vacillo.
Mattine tranquille in cui sorseggio il thè, e respiro prima di andare a prendere il filobus come tanti.
Pomeriggi in cui mi rannicchio sul divano rosso, a leggere o a sonnecchiare.
Pomeriggi in cui il petto sembra scoppiare, in preda al panico.
Sere ventose, in cui la pressione sale, e mi vedo guarito.
Sere buie e insensate, in cui capisco che non voglio guarire e che non so neppure cosa potrebbe più significare...
Così siamo.

Si pensi a che alterazione va incontro la mia esperienza del mondo quando il mio corpo è abitato dal dolore. ..Per l'esperienza che ne ho, non è il mio stomaco che soffre , ma è la mia esistenza che si contrae...Non è una parte dell'organismo che soffre, ma è il rapporto col mondo che si è contratto, è la mia distanza dalle cose, la successione del tempo, l'ordine della presenza...
In questo arretramento della presenza, in cui il malato si scopre attento al proprio corpo invece che al mondo e, sempre più incapace di trovare uno sbocco sulle cose, dimora in sé.
La presenza si raccoglie nell'ascolto del proprio corpo, un ascolto ansioso, inquieto, che rattrappisce ogni prospettiva, allontana ogni progetto, defila il mondo in una distanza sempre più remota, perchè, nel dolore, il mio corpo diventa per me il mondo, l'unico polo della mia cura.
Il corpo ha preso il posto del mondo...
L'esistenza trasforma la malattia in quella realtà tenebrosa che corrode a tal punto l'apertura del mio corpo al mondo da circoscriverla nei limiti di un organismo sempre più bloccato, più immobile, più in-fermo, sempre più fermato su di sé...

Vivere il proprio corpo e vivere il mondo non sono che modi di nominare la stessa esperienza.
Quel che consente di comprendere tutto il significato di questo rapporto è soprattutto il conflitto...
La bocca, l'ano, il fallo non sono solo degli orifizi del corpo, ma le vie del suo contatto col mondo...
Lo stesso vale per tutte quelle regioni che assicurano il contatto del nostro corpo con l'esterno, quindi per gli organi respiratori, digestivi, sessuali, fino all'epidermide.
Un mal-essere di questi organi è un'impossibilità a essere, a esteriorizzarsi; è un disequilibrio dell'esistenza, costretta a vivere nel proprio corpo la sua impossibilità o incapacità a progettarsi in un mondo.
Una volta che la presenza non può esprimersi nel mondo come le 'piace', è costretta a trattenersi e a ripiegarsi su di sé. Non è tanto un 'ingorgo della libido' ciò che si produce, ma una mancata presenza...Non resta altro modo di vivere se non quello del progressivo assentarsi.
Il corpo diventa il teatro dove si vive ciò che non si può vivere nel teatro del mondo...
Il modo con cui l'esistenza vive il proprio corpo rivela il modo con cui vive il mondo.
Per questo non parliamo di conversioni o trasferimento di conflitti psichici agli organi fisici, perchè non ci sono due realtà, ma un'unica presenza che dice nel corpo il proprio modo di essere al mondo.
In presenza di una malattia dei bronchi, dello stomaco, del cuore è impossibile circoscrivere un effetto, perchè disturbato è tutto il modo di essere-nel-mondo, un modo più debole, più apprensivo, più pauroso...
Non è la carenza affettiva o l'eccessiva repressione sessuale che 'causa' disturbi gastrici, ma è la presenza che,impossibilitata a esprimersi in un mondo che sente troppo ostile o troppo proibitivo, dirige verso il proprio corpo le sue pulsioni aggressive e sessuali...
Un mondo inospitale, un mondo che non si lascia abitare non sopprime la presenza, ma la costringe alle corde, la lascia esistere nelle forme dell'apprensione, dell'ansietà, della malattia.
Ciò che si constata non è la 'conversione' di una tensione effettiva in un sintomo organico, ma il progressivo 'assentarsi di una presenza' che, incapace di diluire la sua tensione col mondo,' si ammala', cioè riduce l'intensità dei suoi rapporti con le cose, la propria partecipazione, se stessa come presenza. Nella malattia essa ha la possibilità di non occuparsi più del mondo, ma esclusivamente di sé.

'Quando le vie diventano troppo difficili o quando non scorgiamo alcuna via, non possiamo più rimanere in un mondo così pressante e così difficile. Quando tutte le vie sono sbarrate, eppure bisogna agire, allora tentiamo di cambiare il mondo, cioè di viverlo come se i rapporti delle cose con le loro potenzialità non fossero regolati da processi deterministici, ma dalla magia.' (Sartre).
Quando le gambe mi vengono meno, il cuore mi batte più debolmente, quando impallidisco, cado e svengo perchè la minaccia del pericolo mi toglie ogni possibilità d'azione, niente mi sembra meno adeguato di questa condotta che mi lascia alla mercè del pericolo. Eppure, osserva Sartre:
'Questa è una condotta d'evasione, Lo svenimento è qui un rifugio...Non potendo evitare il pericolo attraverso le vie normali e le concatenazioni deterministiche, l'ho negato, attivando una condotta magica dall'intenzione annichilente...'.

Chi, inesperto, si tuffa nell'acqua ha paura dell' 'onda' che per un attimo lo sommerge e, nel tentativo di salvarsi, diventa malsicuro rispetto alla 'totalità del mare'; perde la testa, e l'angoscia che l'assale non è più per l'onda, ma per la totalità che gli scompare senza offrirgli un appiglio a cui agganciarsi. Come scrive Biswanger:
'L'angoscia in fondo non è un sentimento né un affetto, ma l'espressione del rattrappirsi dell'umana presenza nel vuoto che si determina con la progressiva perdita del mondo, cui si correla una perdita di sé'.

(da U.Galimberti, Il corpo)



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