mercoledì 20 febbraio 2013

lettera da giuseppe

 

Un anno in silenzio, e ora ?

febbraio 20th, 2013
Qualche mese fa – dopo molto silenzio e ad un anno quasi preciso dall’investitura del Grande Pedagogo Bocconiano a Salvatore della Patria (con il Grande Papà del Colle a presidiare il tutto) – con alcuni amici/colleghi/compagni della cooperativa nella quale lavoro ho riacceso il confronto sulle nostre reciproche posizioni politiche.
Eravamo a pranzo, si chiacchierava di politica e non sono riuscito a starmene fuori: come al solito  sono entrato a gamba tesa, in modo tranciante come vengo accusato di fare.
“Non sei mai d’accordo su nulla … non ti collochi mai … come è possibile discutere con te?” …, mi viene detto.
E hanno ragione, dal loro punto di vista.
Poi, di nuovo il silenzio.
Poi, la caduta del governo e infine l’indizione delle elezioni.

E’ da tempo che non scrivo più nulla di queste cose. Nell’ultima cosa scritta (http://achimaie.altervista.org/intermittenze/salviamo-sto-paese/) parlavo di morte della politica ma forse stavo parlando anche della mia imminente morte politica.
Troppo estremo? Cerco di spiegare la situazione nella quale mi trovo, convinto che altri come me condividano questo stato d’animo.
Non sono mai stato un militante a tempo pieno; potrei definirmi un militante carsico, da qualche tempo in stato di immersione, che nonostante diversi tentativi, non trova il modo di risalire in superficie.
Fortemente attratto da ciò che è politico, il mio rapporto con la politica è sempre stato il tentativo di trovare una congiunzione fra la dimensione pubblica dell’azione e la condivisione di intense esperienze relazionali.
E’ per questo che a 15 anni entrai, per la prima e ultima volta, nella sede di un partito (mi ero iscritto al FGCI), uscendone deluso: cercavo passione, relazione, affinità, leggerezza. Trovai un ragazzo un po’ più grande di me che mi sembrò già mummificato nel suo ruolo di piccolo dirigente con tanta voglia di fare carriera nel partito (come poi fece), che invece di parlare declamava, che invece di ascoltare esponeva la linea, pronto a rifilarti un pacco di manifesti da affiggere a scuola.
Mi scoprì romantico e idealista, utopico e insoddisfatto, ma anche capace di leggere fra le righe, di intuire le maschere, sensibile ai modi e non solo al fare, attento al tema del potere. Insomma, romantico ma non ingenuo.
Cercavo altro, guardai verso i movimenti. Erano gli anni del riflusso (inizio ’80): residui di ’77, autonomi in libera uscita, insegnanti sessantottini: tutte cose interessanti e stimolanti per me. E poi c’era il movimento pacifista, antinucleare, le prime forme di ecologismo, gli anarchici, i punk e, nella mia città, uno stranissimo e curiosissimo soggetto che cercava di tenere in sé un pò di tutto questo: le tribù liberate.
Non aderì a nulla, vi girai attorno, mi avvicinai. Partecipavo alle manifestazioni, andavo a qualche riunione ma ancora non avevo trovato la cosa giusta per me: forse non ero pronto o forse niente mi convinceva del tutto, probabilmente le due cose insieme.
Dovetti aspettare quale anno per trovare una casa.
A 18 anni mi dichiarai obiettore di coscienza, conobbi il gruppo locale della lega obiettori, cominciai a fare politica. Qualche anno dopo incontrai l’esperienza dei training nonviolenti, una rete di persone sparse in tutta Italia che declinava il proprio impegno politico e la propria scelta nonviolenta nei modi della formazione e dell’addestramento all’azione diretta nonviolenta: un altro incontro fondamentale, anche per le mie future scelte lavorative.
Iniziò per me – in quel giorno del 1983, quando scrissi la mia dichiarazione di obiezione di coscienza – un lungo ciclo di impegno e passione politica, nella mia città e a livello nazionale, durato fino all’estate del2001, aGenova: un lutto, per molti di noi che stavamo lì. Dopo Genova l’inabissamento, totale per qualche anno.
Poi con alcuni amici – superstiti di Genova e non, tutti in crisi di appartenenza – cominciamo a ritrovarci, strano gruppetto di autocoscienza politica, mescoliamo vaneggiamenti ad analisi politiche, confessioni di impotenza a scatti di orgoglio, letture illuminanti a confronti accesi. Con alcuni di loro vago qua e là per l’Italia, in giro per qualche manifestazione (ricordo con emozione quella a Novara contro gli F35, veramente in pochi, la maggior parte anarchici), ad incontri inconcludenti per nuovi soggetti politici o improbabili contaminazioni.
Timidi e poco convinti tentativi di ritrovare una casa, col passare del tempo sempre più lontano dal palazzo, sempre più incazzato con quelli a cui ancora una volta avevo concesso il mio voto.

Ho sempre votato. Non sono un astensionista anche se ho sempre pensato che la politica non si esaurisca nella rappresentanza. La democrazia rappresentativa è ciò che abbiamo e va usata per quello che è in grado di offrire: rappresentare interessi, valori, idee di politica e società.
Ho sempre votato, più o meno convinto, ma la politica per me è stata sempre altrove, l’idea di una società da trasformare sempre lungo un percorso che non aveva il parlamento come unica sede e forse nemmeno come tappa fondamentale.
Ma ho sempre votato, riconoscendo un legame, ancora prima di una rappresentanza, tra me che andavo alle urne e mettevo una croce sopra un segno e chi grazie a quel segno sarebbe andato in parlamento.
Un legame – pur sfasato, non coincidente, conflittuale – fra il mio impegno quotidiano e ciò che si decideva nel palazzo; ancora di più, un legame simbolico fra la mia idea di rivoluzione e il valore del gioco conflittuale e negoziale che si svolgeva nel parlamento.
Quel legame si è spezzato, non riesco più a vederlo.

Non è solo una questione di contenuti e programmi e neppure di forme e pratiche; pur essendo, questi, affatto secondari nel definire il grado di rappresentanza che posso riconoscere come minimo per poter votare qualcuno.
Rispetto ai contenuti, in qualcuno potrei anche riconoscerlo quel minimo (anche oltre il minimo). E’ sulle forme e le pratiche che proprio non ci siamo.
Poverini i partiti, proprio non ce la fanno a cambiare forma e modi, non riescono a comprendere che ciò di cui c’è bisogno è un cambio di paradigma, un salto di livello: forse non ne hanno nessuna voglia (dovrebbero fare i conti con il proprio fallimento) e adesso fanno di tutto per cercare di neutralizzare la minacciosa onda grillina, che nonostante tutto non li sommergerà e di certo non risolverà il problema di come far uscire gli italiani dall’idea della delega come unica forma di partecipazione (non certo con questa ennesima versione del capo carismatico); verdi e partiti comunisti vari sono in definitiva fase di estinzione, non se ne accorgono o forse ne sono talmente consapevoli che sono riusciti ad intrufolarsi nella rivoluzione civile di alcuni magistrati; sel, di cui non so se ho capito bene le intenzioni, sarà probabilmente risucchiata nell’improbabilità di un’alleanza col pd che già adesso, se si fosse un poco onesti nel riconoscerlo, mostra tutta la sua inconsistenza e incapacità di reggere il mortale richiamo del centro montiano; i movimenti rimangono su una posizione di testimonianza resistente che non ha trovato nessuno sbocco istituzionale davvero interessante e convincente (il tentativo di “Alba-Cambiare si può” è finito malissimo, vampirizzato dagli estinti di cui sopra).
Ma non c’è solo questo. C’è che non sento più il legame che prima, seppur ambivalente, sentivo essere presente.
E non è solo colpa loro, degli eleggendi e futuri eletti, che ormai da troppo tempo fanno un gioco completamente autoreferenziale, irresponsabili nel senso letterale del termine, nel senso che non rispondono a nessuno di ciò che fanno e decidono, traditori indefessi e mentitori incalliti, non solo delle promesse fatte e per le bugie raccontate ma anche delle volontà popolari non rispettate (parlo degli esiti dei referendum).
Ci sono anche io, elettore, che da tempo non riesco a partecipare, ad agire, a fare. Di questo ne soffro, l’ho scritto già diverse volte.
Il lutto di Genova mi ha sfrattato dalla politica e disperatamente in questi anni ho cercato nuove case, nuovi compagni con cui poter abitare lo spazio della politica.
La ricerca continua ma non è attraverso il voto, che sento oggi come una stanca coazione a ripetere, che credo di poter rigenerare qualcosa di interessante per me.
Oggi prendo atto della mia passività, la assumo fino in fondo, ne riconosco i sintomi della depressione.

Ma questo voto è importante, mi si dirà, o sei uno di quelli che pensa che Bersani e Berlusconi siano la stessa cosa? Abbiamo capito che sei deluso ma non farne una questione troppo personale, questo voto è importante.
Depresso si, ma non rincoglionito. Certo che non sono la stessa cosa. Ma quella differenza, che certamente esiste, vale il mio voto? Appunto, il mio voto per cosa? Vediamo …
Per il meno peggio. Questo argomento ha le sue ragioni ma anche i suoi tranelli. Non esiste il meno peggio in assoluto, il meno peggio è sempre relativo ad uno tra quei contendenti che hanno ragionevoli probabilità di vincere. L’argomento del meno peggio entra in gioco quando nessuno fra i contendenti che hanno ragionevoli probabilità di vincere riscuote il proprio apprezzamento, e dato che il proprio voto andrebbe a qualcun altro che però non ha alcuna probabilità di vincere la cosa più opportuna, dice l’argomento, è votare il meno peggio fra quelli che hanno la probabilità di salire sul podio.
Ecco, diciamo che io non voterei PD e sinceramente non me la sento e non mi sembra neppure il caso (vedi l’argomento “voto epocale”) di usare l’argomento di Montanelli per tapparmi il naso e votarlo.
Rimarrebbe una versione alternativa del “meno peggio”: dare forza a un partito che sarà sicuramente all’opposizione – quello che si sente più vicino – consentendogli di portare in parlamento una pattuglia di deputati tale da poter condurre un’opposizione incisiva e magari strappare qualche vittoria su alcune questioni.
Vediamo, chi rimane?
M5S non so cosa sia, quel poco che capisco di cosa sia non mi piace per nulla e il suo programma è un elenco lunghissimo di proposte sui suoi temi di fondo – alcune anche molto interessanti – da cui però non emerge un progetto politico compiuto, con delle voragini su aree cruciali come il lavoro, la politica estera e militare, la giustizia.
Di Rivoluzione Civile faccio fatica a parlarne senza essere volgare, esito bruttissimo e vecchissimo (peggio delle nuovissime primarie della coalizione del centrosinistra) di un processo coraggioso e ambizioso, purtroppo affossato dall’arrembaggio dei “cari estinti” Ferrero, Diliberto, Di Pietro, Bonelli.
Per condizionare il PD. Da quello che ho capito è la posizione di SEL; non ne sono sicuro ma mi sembra che le cose stiano proprio così, altrimenti davvero mi risulterebbe inspiegabile la scelta che ha fatto di mettersi in coalizione con il PD (i due programmi e le posizioni dei due partiti su alcune questioni cruciali sono difficilmente componibili). Condizionare il PD da sinistra, piegando il più possibile il governo sulle proprie posizioni, mi sembra una scelta illusoria e ingenua. Ammesso anche che SEL abbia i numeri per farlo (dovrebbe arrivare intorno al 10% se non di più, cosa altamente improbabile), credo che il PD, dovendo scegliere come dovrà fare, non solo per ragioni di numeri ma anche per linea politica, su alcune questioni dirimenti come la politica estera e militare, il lavoro o le grandi opere pubbliche (come la TAV), sceglierà Monti e compari centristi. A meno che SEL rinunci alle proprie posizioni.
Ecco, diciamo che non vedo l’utilità di votare SEL (andando a rinforzare, col premio di maggioranza, una coalizione che presumibilmente la farà fuori al primo conflitto serio).
Per dare una svolta epocale. Qui mi si deve spiegare in che cosa consisterebbe la svolta epocale. L’uscita dai vent’anni di Berlusconi? L’entrata nell’economia sociale di mercato di Monti? Mi sbaglierò ma non credo che il governo che si formerà dopo le elezioni segnerà alcuna svolta epocale, almeno per come riesco a intenderla io e per come a me piacerebbe che fosse, almeno per l’orizzonte  delle scelte che potrebbero essere compiute (in politica estera, nella politica militare, nella politica economica, nella politica dei diritti individuali, nel rapporto fra stato e chiesa, ecc ecc).
In questo assetto economico resteremo, all’interno dello stesso paradigma dello sviluppo, con la stessa concezione concordataria della laicità dello stato … forse con meno cattiveria e radicalità di ciò che farebbe Monti da solo o Berlusconi se ne avesse ancora la possibilità ma di certo non con svolte epocali all’orizzonte.
Per i programmi presentati. I programmi sono importanti, dalla loro lettura si possono cogliere i riferimenti culturali e valoriali (anche ideologici), le intenzioni, le linee strategiche. Non sono di quelli che pensano che “i programmi non contano nulla, tanto poi fanno quello che vogliono” (anche se solo un ingenuo può pensare che la prima regola di un politico sia quella di intendere il proprio programma come una promessa … diciamo che sono degli intendimenti, poi si vedrà quello che si riesce a fare …).
Quindi i programmi contano ma a me sembra che debba contare molto di più – e mi pare che davvero non conti abbastanza fra i criteri che usiamo per decidere se e chi votare – la valutazione del comportamento avuto in precedenza.
Perché vedi, caro partito, io lo so che non puoi garantirmi che riuscirai a realizzare tutto quello che hai dichiarato in campagna elettorale e quindi non te ne faccio e non te ne farò una colpa (anche se, l’ho già scritto, la dittatura della realtà che giustifica sempre di più come necessitate le scelte dei partiti è una delle principali cause della morte della politica); quello che mi fa incazzare è che tu pretendi che io non veda tutto ciò che non hai fatto, per deliberata volontà di non farlo, nel tempo precedente le elezioni, che io creda adesso che tu ti sia ravveduto e che io non veda le scelte che hai fatto, le quali mi indicano chiaramente la linea politica che hai deciso di percorrere.
La mia fiducia l’hai persa col tempo, scelta dopo scelta, inciucio dopo inciucio, calata di braghe dopo calata di braghe, errore dopo errore.
Facciamo così, non ti condanno in via definitiva ma per questo giro sì. Vediamo come ti comporti questa volta, poi deciderò se ridarti il mio voto.

Si, si abbiamo capito! Ma facendo così, non votando, ti chiami fuori … ecco, è il momento di affrontare gli argomenti contrari al’astensionismo.
L’ho già detto, non sono un astensionista per principio. Ho sempre votato e non ho nulla per principio contro la democrazia rappresentativa – anche se mi sembra che ultimamente sia un poco sofferente, non tanto per i suoi limiti costitutivi ma di una stanchezza che dovrebbe invitare ad un suo ripensamento – e quindi la scelta di non votare è una scelta sofferta che mi invita seriamente a prendere in considerazione i dubbi e le obiezioni che mi si parano di fronte.
Parto da una sensazione molto personale e profonda, che forse si muove anche a partire da elementi inconsci o perlomeno fortemente introiettati.
C’è qualcosa che mi turba e mi frena in questa scelta, come se avessi paura di qualcosa. Ma di cosa ho paura? Che cosa mi turba? Devo prenderla sul serio, come l’indicazione che sto commettendo un errore o addirittura qualcosa di sbagliato? Oppure è solo un sintomo di altro, il segnale di qualcosa di più interessante che mi sfugge?
Ho l’impressione che la “pedagogia del cittadino” abbia scavato e lavorato bene dentro di me, consolidando un’idea della responsabilità un po’ ottusa, squilibrata sul versante del dovere e tale da farmi pensare che non votando non solo io venga meno a un mio dovere ma che così facendo mi ponga fuori dal gioco della democrazia.
Su questa pedagogia del cittadino responsabile e obbediente, mortifera e di fatto in gran parte irresponsabile, credo che poggi gran parte della nostra passività, della nostra collusione con ciò che non funziona, delle nostre meschinerie, del nostro poco coraggio nel fare scelte radicali nella nostra quotidianità.
“Se non voti ti chiami fuori e perdi il diritto a dire la tua, anche solo a lamentarti”, mi dicono poi in molti. Non sono d’accordo. La mia scelta di non votare è il ritiro temporaneo della fiducia e del consenso a chi si sta candidando a governare anche in mio nome. So che questo non mi potrà sottrarre dal governo di chi verrà eletto – in fondo neppure lo vorrei, non ancora almeno – e so che potrò beneficiare come subire le conseguenze delle decisioni che verranno prese, che potrò condividere o dissentire da esse, così come capiterà a chi deciderà di votare. Proprio per questo, perché non posso sottrarmi alle conseguenze delle decisioni che altri prenderanno per me, mi tengo tutto il diritto di parola su di esse così come quello di azione.

Cosa è quindi questa mia astensione? Che accadrà dopo? La conferma del mio imminente stato di morte oppure il segno di una mia possibile rinascita?
Non lo so, voglio sperare che sia la seconda che ho detto. Mi piace pensare che questa mia scelta in negativo, questo mio astenermi possa assomigliare a quell’ infimo inizio che come ci suggerisce Confucio “è l’impercettibile inizio del movimento, il primo segno visibile di ciò che è fausto. L’uomo di valore non appena vede l’infimo passa all’azione, senza attendere la fine della giornata”
Vedremo.
Nel frattempo, “buona camicia a tutti”.
Giuseppe

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