martedì 27 marzo 2012

aspettando il conflitto

LE OPPORTUNITA' DEL CONFLITTO (MILANO, 24.3.2012)


  1. EPISTEMOLOGIE

La specie homo sapiens è stata definita 'neghentrofaga', famelica mangiatrice di ordine e informazione: essa esprime infatti una netta ed esasperata preferenza per l'ordine, il controllo, la sicurezza. Questa tendenza profonda è divenuta ancora più forte, ossessiva, in una civiltà scientifico-tecnologica come l’attuale dell’Occidente, caratterizzata da un rischio mitomanico di onnipotenza.
Le persone non sono allenate, quindi, a leggere e gestire il disordine, non ne sostengono a lungo neppure la vista. Cercano, più velocemente possibile, di 'riportarlo all'ordine'.
La domanda frequente, anche rispetto al comportamento dei consimili, non è 'come mai si sta così tranquilli ?', ma quasi sempre 'come mai ci si agita tanto ?'.
La passività preoccupa meno dell'azione, la stabilità meno del cambiamento, la quiete molto meno del conflitto.
La salute ed il benessere sono intesi come ordine e stabilità, ed il conflitto -in una visione siffatta- non può che rappresentare soltanto il problema, il fattore critico, la malattia, il male.

In una visione complessa, invece, ordine e disordine si equivalgono ed entrambi appaiono costitutivi della vita e dei suoi processi.
Essi si trovano, cioè, in una relazione 'complementare': se un sistema deve restare stabile ed ordinato ad un livello, dovrà cambiare e disordinarsi ad un altro.
'Niente è più stabile, in natura, del cambiamento', ripetono spesso, e giustamente, gli scienziati naturali.
Se un sistema vuole restare stabile a livello 1, deve essere capace di cambiare e di accettare il cambiamento a livello 2. Se non si lascerà perturbare, non potrà essere stabile e non durerà nel tempo (ad es. una coppia che riesce a stare insieme e e restare vitale e viva per lungo tempo, non potrà che cambiare i suoi 'modi di stare insieme' nel tempo).
Questa visione complessa ci ricorda che i latini usavano 'adgredior' per dire 'avvicinarsi', con la sua carica ambivalente di affinità crescente ma anche di minaccia.
Noi, nell'italiano, abbiamo ripreso da lì la nostra matrice di 'aggredirsi', dimenticando il polo positivo dell'etimo ed estremizzandolo verso il negativo.
Così come, nella parola 'in-contro', abbiamo preferito dare più valore al'avvicinamento che al contrasto (pur presente nella parte della parola che dice: 'contro'.

'Ciò che comunemente intendiamo per 'comprendere' coincide con 'semplificare': senza una profonda semplificazione il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci di decidere le nostre azioni...Questo desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è. E' un'ipotesi di lavoro, utile in quanto sia riconosciuta come tale e non scambiata per la realtà; la maggior parte dei fenomeni storici non sono semplici o non semplici della semplicità che piacerebbe a noi...' (P. Levi).
Gli ordini, insomma, sono solo 'mappe'.
E, come ci ricorda Bateson nel bellissimo metalogo ?Perchè le cose finiscono sempre in disordine?', gli stati definiti 'disordinati' saranno sempre più frequenti e probabili di quelli definiti 'ordinati': infatti c’è bisogno di lavoro per togliere la polvere e non dobbiamo invece impegnarci per mettercela.
Sorgeranno continuamente conflitti, spesso non mediabili, proprio tra le diverse visioni esistenti e compresenti su 'ciò che riteniamo ordinato': infatti, quando si mette in ordine la stanza spesso non si trova più nulla e ci si lamenta....
Gran parte dei problemi umani, e della violenza infine, non nasce da un eccesso di disordine, ma proprio dai tentativi di imporre un ordine (di specie, di gruppo, individuale) a sistemi che, se fossero lasciati liberi, ne sceglierebbero altri. Quel che si genera così è un disordine di secondo livello, generato proprio dai conflitti tra diversi e presunti 'ordini'.
'Due pericoli minacciano il mondo, l'ordine e il disordine', amava dire Paul Valery..

Sarebbe importante e urgente, quindi, ri-bilanciare le premesse e le tendenze delle nostre azioni sociali, culturali e formative, favorendo ora, dopo secoli di 'preferenza per l'ordine', una maggiore capacità delle persone di 'stare nel dis-ordine', fino ad 'apprezzarlo' per la sua 'carica' orientata al cambiamento, e di imparare a gestirlo, insieme e più costruttivamente, nelle situazioni di stress, di conflitto, di crisi che spesso porta con sé.
Queste capacità, che sono fatte, più che di tecniche, di una più profonda alfabetizzazione emotiva e di una formazione eticamente sensata, appaiono vitali e centrali: se la salute ed il benessere saranno interpretate non più come 'assenza di conflitto' ma come 'assenza-basso tasso di violenza' nel sistema, allora il conflitto stesso potrà essere visto come opportunità, sintomo 'neutro' da cui partire per una sua elaborazione e trasformazione costruttiva ed evolutiva: positivo e negativo non saranno più termini applicati al conflitto, ma soltanto alle modalità in cui lo gestiremo.

2.PSICOLOGIE DINAMICHE

Prima di passare alle visioni sistemiche del conflitto, un breve excursus su alcuni passaggi chiave delle visioni su di esso all'interno delle teorie psicanalitiche e psicodinamiche.
Il conflitto è inteso in esse prioritariamente come frustrazione, cioè come conflitto tra principio di piacere e principio di realtà.
Come reagiamo a questo conflitto così eterno ed insolubile, ineluttabile e precoce ?
Freud, in 'Al di là del principio del piacere', ci racconta del suo piccolo ma già 'maturo' nipotino che, davanti alla scomparsa della madre per lavoro, si inventa il famoso 'gioco del rocchetto', in cui gestisce l'assenza del suo oggetto primario d'amore attraverso la 'scomparsa e ricomparsa' di un rocchetto, appunto, legato ad un filo.
Secondo M.Klein, quando la madre si assenta ed il seno scompare al suo insopprimibile desiderio di latte e di tetta (una vera catastrofe, almeno per lui !), il bambino può reagire in due modi.
Il primo è assumere una posizione schizo-paranoide: creare due personificazioni, Seno buono e Seno cattivo, non appartenenti alla madre, amando il primo (che gli fa del bene) e odiando il secondo (che gli fa del male). I vantaggi sono che non si deprime, resta attivo, non deve elaborare il dolore come se riguardasse sé e la sua relazione primaria, ma lo proietta verso un'entità esterna cattiva, contro cui agire.
Il secondo modo con cui il bambino può reagire è assumere una posizione depressiva: accettare inconsciamente che la stessa madre possa esserci e non esserci e che questo non sia sempre in connessione con i suoi desideri ed in sintonia con i suoi tempi; assumersi il rischio della posizione depressiva, ma anche della possibile creatività che da essa può derivare.
Winnicott, in 'Gioco e realtà', insiste sul fatto che ogni relazione profonda e significativa si muove originariamente su un gioco-conflitto a più stadi:
' a) il soggetto entra in rapporto con l'oggetto;
b) il soggetto distrugge l'oggetto;
c) l'oggetto sopravvive alla distruzione;
d) il soggetto può usare l'oggetto.'
E il grande Gino Pagliarani, commentando Bion, ci ricorda che per quest'ultimo 'il pensiero si pone come un cambiamento della frustrazione e quindi come un rapportarsi con la realtà. Il pensiero è cioè prodotto dalla frustrazione tollerata e poi mezzo per tollerare ulteriori frustrazioni'.





3. DISSONANZE E IGNORANZE

Attraverso incessanti e costosi tentativi di razionalizzazione (che assumono di volta in volta la forma del giustificare, minimizzare, an-estetizzare, ridicolizzare, deviare su altro, procrastinare...) si va a costituire quella che possiamo iniziare a chiamare 'ignoranza 2'.
Le persone comunemente percepiscono e pensano secondo modalità 'non popperiane' ed 'anti-sperimentali': in genere, se una nuova esperienza falsifica una nostra premessa preferiamo falsificare (manipolare, mistificare, negare) l'esperienza percettiva piuttosto che cambiare idea.
La negazione si nutre di un meccanismo di difesa, noto come “dissonanza cognitiva”, così spiegato da Paolo Fabbri:
Quando percepiamo un’incongruenza tra un nostro comportamento e qualcosa su cui siamo indotti a ragionare, per esempio rispetto a cose in cui siamo coinvolti e convinti come singoli o come gruppo, abbiamo bisogno di ridurre questa “dissonanza”. Tra i due fattori che stridono, le nostre abitudini e le informazioni che ci arrivano, modifichiamo quello più semplice da modificare, le informazioni e il nostro atteggiamento verso di loro. Cerchiamo soluzioni scappatoia, che ci permettono di uscire dalla dissonanza. Se dico “è importante che tutti paghino le tasse”, ma io non le pago, vivo un’incongruenza che devo risolvere: probabilmente continuo a non pagare le tasse, ma dico che non lo faccio per colpa del Governo o perché gli altri non le pagano, a poco a poco distorco la mia percezione sull’obbligo di pagare le tasse.
Il meccanismo della “dissonanza cognitiva” si realizza dunque mettendo in discussione, modificando e distorcendo gli elementi che alimentano il disagio. Festinger, già nel 1957, ha dimostrato con degli esperimenti divenuti celebri che si tratta di un meccanismo involontario. Se sono coinvolto su un argomento con una delle parti in causa, rileggo gli input a riguardo cercando di farli andare d’accordo con il gruppo a cui appartengo: li distorco, li modifico, li reinterpreto, li svaluto, in qualche modo riduco l’efficacia della comunicazione dell’altro, che mi provoca dissonanza. È una difesa verso le comunicazioni persuasive, ma funziona al contrario: mi difende dal bombardamento della pubblicità che mi vuole imporre dei desideri artificiali così come mi evita la destabilizzazione, il fastidio che provoca il dover mettere in discussione una convinzione o uno stile di vita.

L'ignoranza 2 rappresenta la strategia di sopravvivenza primaria per adattarsi alla catastrofe che è già in corso.
Per la maggioranza degli esseri umani che la attuano, anche colti ed intellettualmente dotati,non indica quindi il problema, ma la soluzione.
Ci sono molte persone colte ed intellettualmente capaci a livello 1, ma questo non gli impedisce di essere consapevolmente ignoranti ad un livello 2.
Potremmo dire, anzi, per paradosso ulteriore, che gran parte della loro impotenza ad agire viene addirittura giustificata e motivata proprio da quel che sanno (del tipo: “Stiamo cercando di verificare se è ancora troppo presto per avere la certezza che abbiamo già fatto troppo tardi”).

Dal 'sapere di non sapere' socratico, tipico dell'homo sapiens sapiens, si è giunti alla sua totale inversione: il 'non so di sapere' (un ignoranza 2, quindi, non di primo ma di secondo livello...) è divenuto lo slogan vincente dell'homo insapiens sapiens (che appare come una neo-specie, frutto di una mutazione antropologica).
Se prevale l’ignoranza 2 significa che noi tutti sappiamo, siamo informati della catastrofe in corso, la vediamo, la sentiamo nel corpo e nelle menti, stiamo male anche. Ma la neghiamo, la rimuoviamo, fingiamo di ignorarla. E, facendo questo, sopravviviamo.
L'inazione e l'occultamento del conflitto cognitivo deriverebbero quindi da un parad-ossimoro: un'ignoranza consapevole. A differenza dei dinosauri, ci estingueremo ben informati e per nulla ignoranti del perché e del come ciò sia accaduto.
4. LA SISTEMICA DEI CONFLITTI


Per Bateson esiste 'informazione' solo laddove vi è 'dissonanza', 'differenza che crea differenza': una variazione significativa, un contrasto-conflitto tra quel le nostre premesse si attenderebbero e quel che percepiamo-veniamo a conoscere.
Un sintomo ad es. ci può dire qualcosa sulla violenza del contesto comunicativo, se il conflitto si trova costretto a cercare in esso uno spazio per esprimersi, spazio negato alla comunicazione diretta.
Un sintomo riconosciuto come tale ci può pemettere poi di fare/far fare delle ipotesi proprio a partire da una contraddizione, ad es. tra livello verbale e non verbale di una comunicazione.
(Ipotizzazione, Circolarità, Neutralità, 1980),
E se la contraddizione si fa cronica e all'interno di una relazione significativa e senza possibilità di autosottrazione da questa, essa può generare dei 'doppi vincoli' patogeni.

Nella prima cibernetica si colsero soprattutto i rischi dei paradossi comunicativi, ancora immersi in un'epistemologia dell'ordine che mirava a semplificare e purificare il linguaggio per giungere a forme di comunicazione più logiche e corrette.
'Il grosso dei nostri problemi personali, interpersonali, internazionali ed ecologici deriva in ultima analisi dalla semplice trasformazione di una distinzione in una separazione e di questa in un'opposizione. Ma come mantenere invece questi livelli non separati e non confusi ?' (Bateson).
Ma col tempo si è giunti ad accettare l'inevitabilità delle contraddizioni, dei paradossi e dei 'paradossimori' in qualunque comunicazione.(perlomeno a partire da Cronen, Johnson, Lannaman, 1982) ed anzi a viverli come opportunità e risorsa per la terapia e la mediazione (controparadosso, prescrizione del sintomo, ridefinizione in positivo...)
Così come si è giunti ad accettare l'assioma 'non si può non comunicare', così anche -nel comunicare- dovremmo accettare l'assioma secono cui 'non si può non esercitare potere'.
Un tema ostico, questo del potere, già molto temuto dallo stesso Bateson, ma anche in tempi più recenti da Maturana e Davila, in 'Emozioni e linguaggio in educazione e politica' (2006), quando ad es. affermano che 'le relazioni umane che non si fondano sull'accettazione dell'altro come altro legittimo nella convivenza, non sono relazioni sociali. Le relazioni di lavoro non sono relazioni sociali...
Noi esseri umani non siamo sempre sociali: lo siamo soltanto nella dinamica delle relazioni di reciproca accettazione. Senza azioni di reciproca accettazione non siamo sociali.'.

Trovo più interessanti e realistiche le riflessioni batesoniane sulla schismogenesi che portarono alle proposte dei modelli di interazione a prevalenza simmetrica e/o complementare nella 'Pragmatica' e che trovano assonanze nel modello di mediazione dei conflitti proposto da Pat Patfoort (detto anche 'modello dell'equivalenza' e inteso come superamento del 'modello M-m (Maggiore/minore)).
O l'ecologia dell'azione nella visione di Edgar Morin.
Oppure le visioni di Barnett Pearce con la sua lettura dei conflitti e delle varie modalità di gestione che la società umana ha nel tempo elaborato e costruito (monoculturale(conflitto negato)-etnocentrico (conflitto noi/loro)-modernista (conflitto individuale e interminabile) cosmopolitica (conflitto ineliminabile, da gestire nel rispetto delle differenze).





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